Fonte: Il Tempo a cura di Fabrizio Fabbri
Per vincere, perché il suo mondo la smettesse di definirlo un perdente di successo, LeBron James aveva lasciato Cleveland, la franchigia della sua terra. Era l’8 luglio del 2010 quando il «Prescelto» rese pubblica la decisione di andare verso la calda Miami per placare la sua sete di vittoria.
L’Ohio è terra di gente orgogliosa e il figlio prediletto divenne in un attimo un novello «Bruto» con manifesti stracciati tra le lacrime dai muri della camere dei bambini traditi dal loro idolo. In Florida, in una squadra costruita per vincere, LeBron, accanto a Wade e Bosh, tolse la polvere dalla sua bacheca iniziando così quel percorso, anche psicologico, che lo avrebbe riportato a casa. E nel 2014, quando il ciclo agli Heat era ormai concluso, con due titoli nel 2012 e nel 2013, ecco il «come back». È l’11 luglio del 2014 quando il «Prescelto» annuncia tramite i microfoni di Espn la sua decisione. Ma la ferita nella gente di Cleveland era ancora aperta. Il tradimento per quell’addio inatteso bruciava e LeBron fu accolto da una città che per perdonarlo gli offrì un’unica possibilità: vincere. Parola sconosciuta per i Cavs, che mai avevano messo al dito l’anello da campioni della Nba. Via dalla canotta il numero 6 dei giorni di Miami e ritorno al 23, quello di chi la storia della Nba l’aveva già fatta: Michael Jordan. Chissà se realmente, come lui ha spesso pensato, il sortilegio della vittoria con Cleveland non si sia materializzato subito per la presenza sulla panchina di David Blatt.
Il feeling tra l’ex allenatore di Treviso, Mosca e Maccabi Tel Aviv non è mai esploso. Il tatticismo che Blatt aveva respirato a pieni polmoni in Europa mal si è abbinato alla strapotenza fisica e tecnica di Lebron. Finale contro Golden State del trottolino Curry e sconfitta per 4-2. Frustrazione e rabbia e la certezza di tanti, ma non della proprietà di Cleveland, che quella strana coppia, coach e stella, andasse separata per provare a riscrivere la storia. E così è stato, dopo un avvio di stagione contraddittorio fino a quando Tyronn Lue è stato promosso head coach per togliere al prescelto anche l’ultimo alibi. E da lì probabilmente, da quel 23 gennaio 2016, la storia dei Cleveland Cavs e di LeBron ha preso un nuovo corso. Due successi con Miami dopo la grande fuga, ma quelli per lui, per il nativo di Akron, avevano un peso relativo. Doveva tornare in Ohio, doveva tornare a Cleveland per saldare il debito. E
così è stato. Partita dopo partita, facendo crescere al suo fianco la sua truppa, LeBron ha costruito il sogno. Che si è materializzato con una serie pazzesca. 3-1 per Golden State, nella ripetizione della finale dello scorso anno. Nessuno era mai riemerso dal baratro. Nessuno ma non il «Prescelto». Lui nel momento più difficile di gara-7, di fronte ad una arena ostile, quella di Oakland, ha infialto la tripla che non ha fatto affogare i Cavs. Poi ha piazzato la stoppata, con il punteggio fissato in parità a quota 89, su Iguodala che resta il poster dell’impresa. Lo ha polverizzato, l’Mvp della stagione precedente, per raccoglierne lo scettro. Potenza e rabbia prima della triplona dello scudiero Irving. 89-93 per il delirio. Tutta Cleveland a festeggiare sul legno dei nemici ma d’improvviso l’occhio di bue s’è stretto su di lui.
Prima per riprenderlo inginocchiato in lacrime, a far rivivere una scena già vista quando il 16 giugno del 1996 era stato Michael Jordan, il suo idolo, a compierla dopo la conquista di un anello. E poi quando ha sollevato al cielo non la coppa da vincitore, ma il figlioletto LeBron jr. Lui che il genitore mai ha conosciuto ed è diventato uomo al fianco di mamma Gloria condividendone giorni difficili che potevano scaraventarlo invece che sul campo nella strada a delinquere, ha vissuto nel giorno della festa del papà la sua storia più bella. «Cleveland te lo avevo promesso» le sue parole. Quelle che non chiudono un ’era, perchè LeBron James è destinato a vincere ancora, ma che spingono il numero 23 dei Cavs verso l’eternità della gloria.