Posta arretrata. I tre secondi difensivi sono dal mio punto di vista, prendendola proprio filosoficamente ragionando sullo spirito ultimo di ogni gioco di squadra, la puttanata più gigantesca che mai sia stata inventata. Ogni gioco di squadra prevede che la squadra in difesa abbia tutte le possibilità legali per impedire alla squadra in attacco di segnare (gol, canestri, schiacciate…) e che l’attacco debba confrontarsi con qualsiasi tipo di difesa gli venga proposta per venirne a capo. Nella pallamano esiste la linea dei sei metri per ovvie ragioni di intasamento e per dare al portiere una possibilità qualsiasi di difendersi su tiri che vengono scoccati con le mani, dunque con gli arti incomparabilmente più abili e precisi che abbiamo. Nella pallacanestro non si tratta di far gol, ma di buttare la palla a canestro. Tutto qua. Per cui dire alla difesa come deve muoversi, con l’attacco che ha già comunque la netta prevalenza, sia perché tratta la palla con le mani, ma soprattutto perché il bersaglio è in alto e per impedire di centrarlo le armi in mano alla difesa sono incomparabilmente minori (e, come visto alle Olimpiadi, contro gente di 2 metri e 10 che segna da metà campo non c’è difesa che tenga), escogitare una regola che favorisce ulteriormente l’attacco per fare più spettacolo (e basta, ragioni tecniche vere non ce ne sono) è per me stomachevole. Uno è in area e la intasa? Bene, vuol dire che il suo uomo è da qualche parte liberissimo per tirare. Non è quello che vogliamo, in realtà?Battezziamo un non tiratore? Peggio per l’attacco. Che metta in campo uno che ci prende. Non può piangere che l’altro non lo marca se non segna. Cavoli suoi, non del difensore. No, è una regola stupida, idiota e contraria allo spirito del gioco.
Virata e arresto. Non so perché gli arbitri italiani si siano incaponiti su questa azione tollerando camminate gigantesche in altre situazioni. Forse perché è una delle più belle azioni individuali che ci siano nel basket e, si sa, gli arbitri di basket giocato sono grandi intenditori. In realtà, almeno come viene fatta adesso, è infrazione. Manca infatti quello che si faceva una volta, quando si aveva tecnica, e cioè un velocissimo palleggino con l’altra mano a metà altezza per recuperare sul cambio di passo a virata già eseguita, dopo di ché si eseguiva un normale arresto e tiro. Sul passo e tiro non so che dire: non si vede più, per cui non si sa come gli arbitri possano reagire. Forse se dall’America venissero in Europa ancora giocatori veri di basket come erano i leggendari Steve Hawes e Chuck Jura, veri e propri manuali del gioco del centro, per i quali la finta, il passo e tiro o passo e gancio erano una parte del loro sconfinato repertorio di conclusioni dalla breve distanza, forse potremmo capire quale sia il trend. Oggigiorno, con il passo e tiro fondamentale estinto, non si riesce proprio a capire.
L’accenno alla settimana fausta per lo sport sloveno mi ha incuriosito, anche perché del campionato europeo di basket a tre non ho la più pallida idea, né che si sia svolto né dove, né come, né con quali giocatori. Ho sotto mano l’edizione del lunedì del Delo, con l’inserto sportivo di sei pagine (grandi, non tabloid), e, per quanto mi sia sforzato di cercare su tutte e sei le pagine, di questo campionato non c’è neppure un accenno. C’è stato però, oltre alla sconcertanteprestazione della nazionale di calcio che nelle qualificazioni mondiali ha strappato un 2 a 2 all’ultimo secondo con Cesar (per favore, almeno voi chiamatelo come si chiama e cioè Tzèssar e non Sesar, come se fosse brasiliano) di testa contro la Lituania a Vilnius, dopo che era sotto di 2 a 0 contro una squadra nettamente inferiore, un successo enorme, questo sì veramente incredibile, ed è stata la qualificazione della nazionale di hockey per le prossime Olimpiadi che ha battuto nella partita decisiva a Minsk la Belorussia (quarta alle Olimpiadi solo quattro edizioni fa e che per la seconda volta non vedrà le Olimpiadi, ambedue le volte eliminata proprio dalla Slovenia) dopo i tiri di rigore in una partita epica davanti a oltre 15.000 spettatori. Rigore decisivo della stella della squadra Anže Kopitar dei LA Kings, due Stanley Cup vinte da vice capitano della squadra. Essere fra le 12 migliori compagini al mondo per un movimento che conta neanche 300 giocatori tesserati e che è l’espressione più o meno solo di una minuscola regione, la valle alta della Sava, di un Paese a sua volta già minuscolo come la Slovenia continua per me a rimanere il miracolo dei miracoli di tutto lo sport mondiale.
Più interessante è la storia di Tim Gajser, nuovo campione del mondo di motocross nella classe regina. A proposito, da qui fino al capitolo finale non si parlerà più di basket, per cui quelli che continuate a pensare che questo sia un forum di basket (e non un blog personale di una persona qualsiasi che scrive quello che gli pare e piace) saltate a pie’ pari quanto sto per scrivere. Storia già vista in millanta occasioni, ma con un tocco tragico in più. Papà Bogomir di un posto sperduto, Pečke, in un posto collinare e isolato, appassionato di motocross, sport che ha praticato per tutta la vita. Era solo normale tentare di appassionare al motocross il primogenito, sfruttando la mini pista costruita attorno a casa (come detto posto sperduto fra le colline), ma la grande passione fa sì che per una straziante e tragica successione di circostanze il ragazzo venisse investito durante un allenamento sembra dal padre stesso rimanendo ucciso. Il dramma familiare che ne segue porta al progressivo allontanamento fra Gajser senior e sua moglie, e infatti i due si separeranno poco dopo, per cui al papà rimane come consolazione solamente il secondogenito, Tim, di alcuni anni più giovane rispetto allo sfortunatissimo fratello. Il piccolo dimostra subito una grandissima passione per il motocross senza bisogno che vi venga spinto e al papà sembra di sognare, per cui dedica da quel momento in poi tutta la sua vita, tutte le attenzioni e tutti i soldi che gli rimangono al ragazzino per far sì che possa realizzare la sua passione che è poi ovviamente anche quella del papà. Nel 2007, a 11 anni (ne ha compiuti venti in questi giorni), il piccolo Tim conquista il titolo europeo fino ai 65 cm cubici gareggiando su una moto rabberciata in casa alla bell’e meglio che perde olio per strada, ma comunque dando la paga a tutti i fighettini con moto perfette delle altre nazioni. Deve gareggiare per la Croazia, perché a quell’età in Slovenia per gareggiare ci vuole il consenso di ambedue i genitori, e immaginarsi se con quel che ha passato la mamma dava il consenso, e perciò il papà si rifugia in Croazia, dove le regole sono più lassiste. Il caso del bambino di Pečke che primeggia in uno sport che in Slovenia non è proprio fra i più popolari attira l’attenzione dei media e proprio domenica sera la TV di Stato slovena ha ritrasmesso il servizio che aveva fatto allora nel quale si vede il piccolino con la sua mini moto saltellare allegro sulle dune di casa facendo tutte le acrobazie possibili con straordinaria naturalezza. Vedere quel servizio e pensare immediatamente a Graziano e Valentino Rossi è stato scontato. Insomma, per farla breve, il talento del ragazzino si è rivelato subito in tutta la sua grandezza, non c’è stata categoria nella quale non sia stato il migliore, a 16 anni ha ricevuto il premio della FIM quale giovane più promettente negli sport della moto, l’anno scorso ha vinto la MotoX2, quest’anno alla grande la MotoXGP. Storia questa di Tim Gajser che ricorda, come detto, i Rossi, ma anche i Kostelić, con papà e figli, come la leggendaria famiglia croata, costretti a volte durante le trasferte a dormire in macchina per risparmiare, a dover ricorrere a tutti gli stratagemmi possibili per poter correre, a vivere a volte letteralmente sul filo del rasoio finanziario. Dopo la prova di domenica in America ora per Tim si schiudono tutte le porte, per cui una volta stufatosi di vincere a livello internazionale potrà tranquillamente andare in America a disputare il loro lucrosissimo circuito, per il quale ovviamente è stato invitato seduta stante dopo che lo hanno visto correre domenica. Storia dunque a lieto fine, anche dal punto di vista sentimentale le cose si sono messe a posto con Bogomir che si è risposato, per cui ora Tim ha anche due fratellini (maschio e femmina) che ovviamente adora.
Tutto bene. Ma la morale che se ne può trarre è abbastanza inquietante. Per tutte le storie che finiscono bene e delle quali sono pieni i giornali, quante, e sono sicuro che sono la maggioranza, finiscono male? Con le persone che rovinano se stesse e i figli inseguendo ambizioni che non possono realizzare?Scusate, ma non voglio neanche pensarci.
La storia di Tim, e qui mi scuso, perché so benissimo che parlerò di cose che interessano molto poco chi non le vive, è anche abbastanza significativa per indicare come la situazione politica influenzi incredibilmente, per me in modo affascinante, anche il carattere delle persone. Mi spiego. La Slovenia ha festeggiato quest’anno i 25 anni dall’indipendenza dalla Jugoslavia. Nella quale era una Repubblica piccola, succube di Repubbliche più grandi e che si sapevano anche vendere molto meglio dal punto di vista mediatico quali Croazia e soprattutto Serbia, accerchiata storicamente da popoli grandi e influenti come Italiani a ovest e Tedeschi a nord, per non parlare degli Ungheresi a est. Per cui la sua gente ha sviluppato nei secoli uno straordinario complesso di inferiorità, sedimentatosi in modo quasi genetico (aiuto! – per amor di Dio, non ricominciate!), della serie: “siamo piccoli, siamo pochi, dove possiamo andare fra tutti questi colossi che ci assediano”. In breve gli sloveni sono sempre stati una grandiosa fabbrica di perdenti che, per quanto forti potessero essere, quando veniva il momento del dunque se la facevano addosso. Con l’indipendenza la Slovenia è diventata unoStato a tutti gli effetti, è entrata nell’Unione europea e nella zona Schengen,Lubiana è diventata anch’essa a tutti gli effetti una capitale europea con tanto di ambasciate e consolati, e la mentalità della gente è cominciata a cambiare. Lo sport è come sempre il primo ambito nel quale questi cambiamenti vengono alla luce. E, guarda caso, proprio nello sport è nato lo Sloveno 2.0. Quello che quando è forte sa di esserlo e dunque deve vincere. E se non vince ha fallito. Cominciando dal martellista Primož Kozmus, oro e argento olimpico con miglior misura stagionale stabilita proprio nell’evento della stagione, continuando con Peter Prevc, Tina Maze e Žan Košir, con il velista Vasilij Žbogar, tre medaglie olimpiche in due classi diverse, e finendo con la judoka Tina Trstenjak, oro a Rio. La quale ha detto con grande semplicità in conferenza stampa: “Sono campionessa europea e mondiale, sono la numero uno al mondo, per cui è solo ovvio che sono venuta a Rio per vincere”. Dichiarazione che per un atleta sloveno è assolutamente inaudita e che ancora 30 anni fa sarebbe stata presa dalla stampa slovena stessa come un inammissibile sfoggio di presunzione. E infatti la Trstenjak, dopo un primo match nel quale ha atteso invano che l’italiana che si è trovata di fronte provasse a fare qualcosa vincendo per due ammonizioni per lotta passiva, ha finito la sua gara con tutti ippon, finale compresa.
Passando infine alla domanda di Pado di qualche tempo fa sul basket femminile serbo la prima cosa da dire è che in un senso ha indovinato in pieno, ma nel contempo ha tratto le conclusioni sballate. E’ verissimo che nei Balcani, come in tutta l’Europa del sud, nel senso più a sud vai più il rapporto fra mondo maschile e quello femminile è cementato secondo consuetudini arcaiche, era normale che anche in campo sportivo le donne non potessero praticare attività destinate agli uomini. Il problema è però che, incredibilmente, nella Jugoslavia dell’immediato dopoguerra il basket era nettamente più sviluppato fra le donne che fra gli uomini. Nel film agiografico serbo “Bit ćemo svetski prvaci« (saremo Campioni del mondo) che in prospettiva serbocentrica (in modo del tutto caratteristico per la loro mentalità) ripercorre la storia del basket in Jugoslavia dalla fine della Seconda guerra mondiale fino al titolo mondiale vinto a Lubiana nel ’70, si dedica molto spazio all’episodio romantico dell’idillio che sboccia fra il deus ex machina del quartetto dei moschettieri serbi che crearono il basket a Belgrado Nebojša Popović (gli altri tre chiamandosi Aca Nikolić, Bora Stanković e Radomir Šaper, il cervello del quartetto, poi per lunghissimi anni Presidente del potentissimo Comitato tecnico della FIBA) con una giocatrice della Lokomotiva di Zagabria, incontrata a un match di Serie A jugoslava mentre la Zvezda maschile muoveva appena i suoi primi passi. Idillio poi sbocciato in un matrimonio felice che nel film viene continuamente sottolineato dal regista per ribadire che l’amore e la fratellanza fra i popoli jugoslavi è pur sempre possibile. Come è possibile che il basket femminile fosse così popolare? Elementare, Watson (anche se non esiste riga nei romanzi di Conan Doyle nella quale venga riportata questa celeberrima, ma palesemente apocrifa, frase – credetemi, di Sherlock Holmes ho letto l’opera omnia e so di quello che parlo). Semplicemente il basket era considerato a tutti gli effetti uno sport per signorine, visto che era uno sport no contact. Valeva dunque il contrario: a suscitare sospetti erano i maschi che si dedicavano a quello sport rammollito e che erano dunque visti con occhio più che scettico. La grande tradizione del basket femminile a Belgrado andò avanti per lunghissimo tempo ed è pertanto falso che questa ultima generazione di Marina Maljković significhi la nascita e la crescita del basket femminile in Serbia. E’ semmai una rinascita che arriva più di trent’anni dopo la grande generazione che lottava per le medaglie olimpiche di Sofija Pekić, Anđelija Arbutina, Zorica Đurković (forse la più forte di tutte), Zagorka Počeković e tante altre.