Fonte: Il Sole 24 Ore a cura di Mattia Losi
Dino Meneghin festeggia il compleanno. Nel bel pezzo di Mattia Losi viene tracciato un profilo diverso dal solito, un insegnamento per tutti i giovani cestisti. Ne riportiamo uno stralcio:
…Questa volta preferisco ricordarlo in allenamento, nella palestra secondaria del Palalido. Era arrivato a Milano a trent’anni passati: quasi tutti credevano che il meglio della sua carriera si fosse ormai concluso e che gli allori vinti a Varese non avrebbero trovato compagnia. In quella piccola palestra, con pochi posti ricavati a bordo campo per il pubblico, Meneghin ha fatto capire a tutti quelli che seguivano gli allenamenti dell’Olimpia cosa fosse davvero a renderlo speciale, unico.
E questo ingrediente magico non era il talento. Non era il fisico. Certo cose utili, che lui possedeva in quantità. Ma il suo segreto era un ingrediente a portata di tutti: la fatica. Perché fisico, tiro, velocità, talento «e chi più ne ha più ne metta», come direbbe Dino, sono nulla se non vengono accuditi, coltivati, alimentati ogni giorno con l’impegno, il superamento dei propri limiti, la cancellazione dal proprio vocabolario della parola «arrendersi».
Su quel campo di allenamento ho visto Meneghin combattere contro qualsiasi compagno, su ogni singolo pallone, ma soprattutto contro sè stesso. Contro la voglia di fermarsi, di prendersi una pausa, di saltare un esercizio perché tutto sommato lui era Dino Meneghin. Quando a Milano presero Bargna, più giovane e veloce, per giocare un basket aggressivo, il “vecchio” Meneghin non fece altro che riconquistare il posto allenandosi, allendandosi e allenandosi ancora. Alla fine, come ricorda Mario Governa, il “giovane” di quella squadra straordinaria, «il più veloce era Dino».
La sua lezione è intatta, dopo tanti anni, ed è una lezione preziosa per tutti i giocatori che sognano di diventare campioni, di fare un salto di qualità, di vincere. È una lezione che cancella le parole “arrendersi” e “riposo”, per sostuituirle con “impegno” e “fatica”. Una lezione che testimonia come le partite e soprattutto le vittorie siano il frutto dell’allenamento, non del caso o di un fato benevolo. Che ci dice come «il fare canestro» non sia questione di mira. Come «il prendere un rimbalzo» non sia questione di saltare tanto. Come «il portare la propria squadra alla vittoria» non sia soltanto segnare tanti punti.
Soprattutto è una lezione che ci insegna a cancellare la parola “io” per mettere in cima al vocabolario la parola “squadra”. Anche quando, come nel caso di Meneghin, sei il numero uno.
Una volta, e qui mi concedo un aneddoto personale, ho chiesto a Dino perché appoggiasse sempre la palla al tabellone invece di schiacciare. «Con la schiacciata non sai mai come va a finire – mi ha risposto -. Magari colpisci il ferro e rimbalza lontano. Per la squadra sono meglio due punti sicuri». Appunto… Inutile aggiungere altro.