Kawhi e l’assenza del leader

"A me sinceramente la parola leader non mi è mai piaciuta, più che altro mi metto a disposizione della squadra", disse una volta Francesco Totti.

Da tanto non scrivo di basket. Non che il basket abbia sentito la mia assenza. Ma questa sera gara 7 dei Clippers mi ha fatto ricordare come siano gli uomini a decidere le partite, e non i caporali.

Ogni grande leader nello sport di squadra è in grado di catalizzare su di sé le energie del momento, per restituirla ai suoi compagni.

Micheal Jordan, Larry Bird, Magic, Kobe, Shaq, Wade, Ginobili, scuotevano i compagni di squadra con grida, occhiate assassine e portandoseli dietro nei momenti difficili. Poi segnavano i canestri importanti, facevano le azioni capitali, ma lo facevano portandosi dietro la squadra, riuscendo a infondere carattere.

Kawhi Leonard e Paul George, ai Clippers, non ci sono riusciti. Giocatori fortissimi sul campo, si sono dimostrati leader carenti, incapaci di trasferire ai compagni la carica necessaria a portarsi a casa la partita. Certe cose impalpabili, contano.

Prendere un giocatore mediocre, capire, da un’occhiata, che questo è disposto a sputare sangue in campo, renderlo il proprio scudiero. Questo fanno i grandi giocatori. Jordan con Kerr. LeBron con Dellavedova e Caruso. E lo fai con le grida. Lo fai con la cattiveria in allenamento, dopo l’allenamento, con lo sguardo.

Kawhi fa pensare a un buco nero. Assorbe energia, non è in grado di emetterne. Gioca con intensità incredibile, ma non è in grado di trasmettere questa intensità alla squadra. Sembra intimidito, a chiedersi come mai qualcuno non assuma quel ruolo e lo costringa a scollarsi dallo status di stella, per sporcarsi le mani a smuovere gli altri.

I secondi tempi delle ultime tre partite contro Denver hanno visto Kawhi prendersi i suoi tiri, lottare a rimbalzo, fare tutto, ma fare tutto il suo, senza essere in grado di elevare il rendimento degli altri. A San Antonio poteva comportarsi così perché coccolato da tre stelle che si assumevano il compito di caricarsi sulle spalle le emozioni della squadra.

A Toronto, Kyle Lowry, Van Vleet, Marc Gasol, Ibaka, gridavano, si facevano sentire, portandosi dentro, quasi accudito, questo corpo cestistico straordinario, ma apparentemente estraneo a tutto, che eseguiva il suo compito con uno sguardo perso nel vuoto da sicario solitario.

È bastato guardare Jimmy Butler a Miami portarsi dietro gli Heat con un continuo dialogo con tutti, fino a elevare il rendimento di Hero, distribuendo, incitando costruendo fiducia. Le partite NBA sono un formidabile esempio di cosa sia la leadership, quella vera.

C’è la leadership alla LeBron, Michael, Kobe, del campionissimo che spinge sull’acceleratore e si porta dietro tutti. Poi c’è la leadership dei Lowry, giocatori magari un gradino sotto, ma dotati di uno spirito pazzesco, che non contempla la sconfitta.

Poi c’è quella degli Udonis Haslem, panchinari, che incarnano lo spirito della squadra al di là dei loro minuti, e a cui nessuno si sognerebbe di rispondere a un incitamento rinfacciandogli il poco tempo in campo.

Ecco, ai Clippers sono mancate queste leadership. Kawhi chiuso in un bozzolo da cui solo un buon psichiatra può tirarlo fuori, Paul George impegnato a guardarsi in uno specchio e a non farsi troppo male, in attesa del prossimo contrattone.

È mancato lo spirito, l’anima, il cuore. E queste sono cose che, anche nel mondo NBA, in cui il soldo batte tutto, sono ancora invincibili. Le squadre non vincono se non hanno un cuore che batte. E questi sono valori, valori non negoziabili, che albergano nel giocatore, e che il giocatore deve sapere esprimere, mettere in campo, accettando il peso che rappresenta il mettersi in mostra, al centro della scena.

Kawhi sa assumersi responsabilità, è certo. Ma lo fa nel silenzio di un ragazzo testardo chiuso nella sua camera. Scambia con i suoi compagni dei “cinque” trattenuti, senza emozione, aspettando.

In una situazione come quella dei secondi tempi dei Clippers, LeBron sarebbe impazzito. Avrebbe preso Paul George per il collo e lo avrebbe incollato al muro a forza di gridargli contro. Poi avrebbe preso un panchinaro e a forza di allenamenti lo avrebbe reso un giocatore. Per non parlare di Jordan, di Wade, giocatori diversi ma ugualmente capaci di esaltarsi nei momenti topici.

Kawhi non è in grado di farlo. Ingannato dalle sue esperienze precedenti, pensava che sarebbe bastato comparire in campo per guidare la squadra. Ma quando non si è visto contornato da Manu, Tony, Tim, Marc, Kyle, Fred, Serge, si è trovato solo con giocatori gregari, non solo per il ruolo, ma soprattutto come atteggiamento mentale.

Beverley e Morris hanno perso tempo a insultare gli avversari e a prendere tecnici, Lou Williams ha mostrato come passi il tempo per tutti, gli altri sembravano immobilizzati, incapaci di mostrare un po’ di affiatamento in campo, un collante, quell’intesa che nei momenti difficili ti toglie dai guai.

Vengono in mente i Raptors di gara-7 contro i Celtics: una squadra vera, mai battuta fino all’ultimo, capace di togliersi dai guai nei momenti difficili grazie all’esempio dei loro leader.

Jokic dopo la partita ha detto che si ricorderà di questi Nuggets, per come la squadra gioca bene insieme al di là dei risultati ottenuti. E in fondo per questo si gioca, al di là dei soldi, al di là dei titoli. Si gioca per trovarsi con Enrico V a Angicourt che cerca di tornare in Inghilterra, e che ai suoi soldati inizia a dire: “noi pochi, noi felici pochi”.

Quando costruisci la squadra puoi scegliere tra la strada lunga o la scorciatoia. Se scegli la scorciatoia, devi comunque contornare i campioni di giocatori capaci di lottare e di creare uno spirito comune. I Clippers non ci sono riusciti, anzi, hanno rinunciato a Chris Paul, che era il tipo di giocatore capace di strigliare chi non faceva il proprio dovere, e di portarsi dietro la squadra.

I Celtics dei big Three avevano una serie di giocatori di contorno dediti al loro compito, da Campbell a Posey a Rondo. Gli Heat di LeBron, Wade e Bosh avevano Birdman, avevano Chalmers, giocatori che andavano oltre i propri limiti sulla scia di campioni che riuscivano ad accrescere il loro valore.

Le finali di conference presentano squadre con leadership ben definite: Butler a Miami, LeBron ai Lakers, Jokic ai Nuggets. Solo i Celtics presentano un Tatum che ancora fatica ad assumere il suo ruolo guida, e questo forse sarà il loro vero punto debole.

Queste semifinali comunque hanno ricordato il valore dei grandi giocatori, dei grandi motivatori, e di come si possono avere dei personaggi importanti in campo, ma che se sono dei Don Abbondio, che il “coraggio non se lo possono dare”, nei momenti difficili naufragheranno.

E alla fine a farcela saranno sempre i cagnacci disposti a lottare nel silenzio, perché ammirano e odiano il loro capobranco che è in grado di ferirli, batterli, schiacciarli, e di farli sentire uomini, come mai nessuno ha fatto prima.

Massimo Tosatto